Mons. Angelo Di Felice
Mons. Angelo Di Felice è nato a Pachino (Siracusa) il 1 gennaio 1913 ed è stato ordinato sacerdote l’11 agosto 1935.
Laureato in utroque iure presso la Pontificia Università Lateranense, avvocato rotale, è stato canonico teologo della Cattedrale di Cerreto Sannita, Cancelliere della Curia Vescovile di Telese e Cerreto, Officiale del Tribunale Ecclesiastico Beneventano e d’Appello, Prelato Uditore della Rota Romana dal 1969 al 1987, Presidente dell’Associazione Canonistica Italiana dal 1972 al 1987, Primicerio del nostro Arcisodalizio della Curia Romana dal 1972 al 1987, anno della sua improvvisa morte avvenuta subito dopo il Congresso di Gallipoli dell’Ascai nell’ottobre 1987.
Nel dar vita a quest’opera sul Diritto Matrimoniale Canonico, abbiamo perciò pensato di dedicare uno dei tre volumi a Lui, come segno di ringraziamento per l’attività svolta in tanti anni e di ricordarlo nella funzione in cui meglio lo abbiamo conosciuto, quella di giudice.
«Secernere simplex verum et relatis a partibus et testibus sane opus est iudici» , questo è il principio cui si è ispirato Mons. Di Felice nella sua funzione di giudice, prima presso il Tribunale di Benevento, poi presso quello della Rota Romana ed è questa la chiave con cui debbono leggersi le sue sentenze e la sua concezione della figura del giudice.
a. La funzione del giudice
Il giudice è giustizia animata, secondo la definizione che Mons. Di Felice prende da S. Tommaso, suo punto di riferimento costante nella parte dottrinale delle sentenze, e da Aristotele, e come tale deve far vivere la legge nel suo tempo, deve essere aperto al nuovo sia per quanto riguarda il contributo che viene da scienze ausiliarie quali la psicologia e la psichiatria , sia per quanto riguarda il diritto in senso stretto.
Ad una scrupolosa applicazione della legge deve corrispondere la massima attenzione al nuovo, specie poi a quel nuovo che non costituisce una traumatica rottura col passato, ma che ha una sua linea di continuità nella tradizione dottrinale e giurisprudenziale della Chiesa (can. 6 § 1 n. 4).
Mons. Di Felice ha avuto la ventura di espletare la sua funzione, specie presso la Rota, in un periodo esaltante per un giurista: egli infatti ha vissuto interamente quel lungo periodo transitorio che va dalla fine del Vaticano II fino alla promulgazione del nuovo Codice, quel periodo cioè in cui il Codice del 1917 era ancora vigente, ma non poteva più che leggersi alla luce del Concilio. È questo il periodo in cui maggiore e più profondo è stato il contributo «creativo» della giurisprudenza alla nuova legislazione canonistica, adattando il vecchio al nuovo.
Mons. Di Felice ha dato una giustificazione teorica di tutto questo ed indicato anche dei limiti ben precisi, che distinguono una legittima interpretazione evolutiva della legge canonica dalle gratuite affermazioni dei c.d novatores.
[…]
b. Il giudice deve privilegiare le motivazioni del fatto
Mons. Di Felice […] ha […] inteso privilegiare, nell’esercizio della sua funzione di giudice, l’aspetto pragmatico. Di conseguenza, le sue sentenze sono brevi, soprattutto nella parte giuridica, che deve essere chiara sì e ben motivata, in particolare presso la Rota Romana, che istituzionalmente è chiamata a provvedere all’unità della giurisprudenza per tutto il mondo cattolico (art. 126 P.B.), ma non troppo elaborate.
[…]
c. L’ossequio verso la giurisprudenza rotale
Nello svolgimento delle sue funzioni, Mons. Di Felice non ha mostrato solo un rispetto che confina con la devozione nei confronti della giurisprudenza canonica e di quella rotale in particolare: è stato anche un fermo difensore delle prerogative del giudice di fronte ai sempre più frequenti tentativi di esproprio di questa funzione, posti in essere, più o meno consapevolmente, da certi auxiliatores della giustizia, sempre più spesso chiamati a collaborare all’espletamento delle cause in foro canonico, a ragione del proliferare (ormai anche in Italia) delle cause di incapacità.
[…]
e. L’autonomia del giudice
Mons. Di Felice è stato infine un fermo difensore della sana dottrina della Chiesa, rifuggendo da ogni soluzione irenistica. Il giudice cioè non deve dimenticare che ogni matrimonio è un sacramento e quindi un mezzo per raggiungere la salvezza; che nella società odierna scristianizzata, in cui sono propagate idee errate, manca ai coniugi il conforto e l’aiuto sociale necessario per far fronte agli obblighi coniugali; sarebbe però falso irenismo non opporsi ed anzi favorire questa tendenza, prestandosi ad interpretazioni lassiste e prive di fondamento, che vanificano la stabilità del vincolo coniugale e tolgono ai fedeli ogni certezza, ogni punto di riferimento. La società ecclesiale non aiuta quindi i fedeli a far fronte ai propri obblighi ed a rafforzarsi nella fede, dispensando dichiarazioni di nullità di matrimonio che equivalgono a vere rescissioni del vincolo.
L’insegnamento che Mons. Di Felice ha lasciato a noi operatori della giustizia può dunque sintetizzarsi così: essere sempre attenti a cogliere i segni dei tempi e della evoluzione della società ecclesiale per trarne il succo giuridico, in una linea che non rompa con la tradizione giuridica e teologica della Chiesa; che l’attività giudiziaria ha come destinatari esclusivi le parti e cioè delle persone concrete, coi loro problemi esistenziali, che spesso ben poco sanno di diritto; e che infine il giudice, prima di ogni altra cosa, deve saper distinguere la semplice verità (il simplex verum) di cui parlavamo all’inizio dalla menzogna e dare alle parti una sentenza rapida e, soprattutto, giusta, indicando chiaramente, in modo comprensibile anche ai profani di diritto, le ragioni per cui la loro domanda è accolta e, a maggior ragione, quelle per cui viene rigettata. Non mi pare che sia poco.
Carlo Gullo