Avv. Sebastiano Villeggiante
Eravamo giovani, allora: di diversa formazione culturale, di diversi sin opposti orientamenti, ma entrambi ugualmente appassionati al nostro lavoro e ai nostri temi. Io (nella fase formativa del mio apprendistato canonistico, dopo una fugace ma intensa esperienza pubblicistica) mi trovavo – sin da allora – a pormi come in posizione critica verso l’oggetto del mio nuovo impegno. M’ero laureato – qualche anno prima – con Perassi: e da Perassi [fra i massimi esponenti della dogmatica giuridica] avevo tratto i primi insegnamenti: e avevo – se può dirsi – ereditato il gusto per le riflessioni sistematiche. Avvertivo la inadeguatezza dei comodi “mimetismi” culturali cui si lasciava andare la Scuola canonistica “laica” di quei tempi.
Cercavo allora di comprendere quanta parte degli apparati dottrinali della scienza civilistica fosse effettivamente utilizzabile in ragione d’un ordinato e corretto intendimento della esperienza istituzionale-sacramentale-pastorale della ecclesia ducens e della ecclesia ducta, e quante viceversa delle predette conclusioni non si addicessero a quella medesima realtà: tale – in effetti – da presentarsi con denotazioni formali e sostanziali tutto sue, non riconducibili agli usitati schemi civilistici: anzi difficilmente riportabili alla stessa economia della giuridicità qual usualmente intesa. Sebastiano – in quegli stessi anni – si avviava (da poco laureato) all’esercizio della professione forense, nella quale – come Avvocato rotale – avrebbe acquistato, nei successivi decenni, una posizione di assoluto prestigio: e questo non soltanto per la capacità tecnica e per la cura e la onestà che sapeva riversare nel suo lavoro, ma per il costante interesse culturale con cui volgeva alla propria esperienza di Avvocato. Gli era così dato conseguire risultati di gran pregio didascalico in fatto di disamina e sistematizzazione della giurisprudenza dei Tribunali ecclesiastici: valutata e nei principi informatori e nella loro concreta applicazione alla multiforme realtà dei fatti di vita reale. Da questa approfondita conoscenza d’una materia così impervia, fitta di nodi da sbrogliare, Sebastiano doveva trarre incentivo a tradurre i suoi convincimenti dottrinali [spesso in dissenso rispetto alla communis opinio] nei numerosi e pregevoli scritti in cui s’è concretata la sua riflessione scientifica, anche in ragione dell’insegnamento universitario da lui svolto – con competenza ed autorevolezza – presso l’Ateneo pontificio dell’Angelicum. Mi piace ricordare – fra i tanti – il suo puntuale saggio su L’incapacità psicologica come causa di nullità del matrimonio, e quello di grande interesse umanistico sulle inclinazioni canonistiche di Ciullo d’Alcamo, tenero Poeta dei Contrasti. Ma non v’è problema, si può dire, di diritto matrimoniale canonico – sostanziale e processuale – sul quale Sebastiano non abbia portato la sua attenzione di scienziato del diritto. Vivo il suo interessamento alla bioetica: e più generalmente a quei iura fundamentalia che dal Concilio in poi hanno rappresentato un punto fermo della più avanzata antropologia canonistica. Innumerevoli i convegni scientifici nei quali la sua era voce ascoltata con segnato riguardo.
A far da tramite per la nostra conoscenza fu un comune Maestro, un comune Amico: al quale – da entrambi – è sempre andata la più profonda ammirazione: e al quale va sempre la mia imperitura gratitudine. Fu Pio Fedele a farci incontrare in una sede per me insolita, dal nome severo. Parlo dell’Arcisodalizio della Curia Romana.
Avevo conosciuto Pio fin da quando ero studente del secondo o del terzo anno. Ero andato a trovarlo con un caro mio fratello, Enzo, divenuto nell’immediato dopoguerra Avvocato rotale e poi passato nella Carriera diplomatica: ed ero rimasto impressionato dalla affabilità e semplicità – direi quasi dalla ingenuità – di quel Maestro pur insigne, già divenuto celebre per il suo insuperabile Discorso generale che rimetteva in moto se può dirsi la speculazione peculiarmente canonistica affrancandola da condizionamenti civilistici. Mi colpiva l’attenzione e la serietà con cui quel Giurista di prim’ordine prendeva in considerazione le riflessioni [debbo supporre grossolane] che un ragazzotto di vent’anni si permetteva sottoporgli con infantile improntitudine. Era Studioso – Pio Fedele – che sapeva ascoltare, e che sapeva apprezzare quanto gli si diceva: fosse o non fosse un che di conforme al suo modo di porre e intendere i problemi. Sicché – da allora – (incoraggiato dalla sua benevolenza) le mie visite divennero sempre più frequenti. Duravano interi pomeriggi. Quanta sopportazione per la cara Clelia! E quel rapporto – da tirocinante a Maestro – doveva col tempo trasformarsi in un vincolo profondo di amicizia: destinato a durare e rafforzarsi per oltre un cinquantennio. E proprio accompagnando Pio Fedele ebbi occasione (un giorno di non ricordo qual anno, ma certo d’un anno ben lontano) di partecipare per la prima volta alle riunioni dell’Arcisodalizio. L’avevo portato in macchina quel giorno a Via Monte Brianzo: alla Chiesetta di Santa Lucia, nella cui canonica – dal pavimento traballante – si svolgevano allora vivaci incontri culturali. Erano gli anni delle polemiche sui modi di intendere il riconoscimento costituzionale dei Patti del 1929 e sulla conseguente qualificazione pubblicistica dei rapporti Stato-Chiesa. Ricordo i primi confronti (per me pieni di timor reverenziale) col severo Salvatore Lener, e i molti incontri successivi: con Giacchi, con Gismondi, con Lombardi, col caro Tommaso Mauro, con l’indimenticabile Olis Robleda, e Padre Gordon. Venivano in questione la riforma concordataria, le innovazioni del diritto di famiglia, la introduzione del divorzio: e le tante altre tematiche che andavano man mano presentandosi in una realtà comunitaria in fase di avanzato dinamismo. E venivano in questione i molti problemi sollevati dalla nuova codificazione della Chiesa. Erano temi tutti disputati: dei quali – profittando della ospitalità che tanto cortesemente m’era offerta – ho sempre avuto modo di discutere, con assoluta libertà, nelle riunioni mensili dell’Arcisodalizio. E a questa mia tenacia nel proporre le mie ragioni (spesso, va detto, eterodosse) corrispondeva l’altrettanto costante assiduità del Professore e Avvocato Villeggiante nel prendere a sua volta costantemente la parola. E i suoi erano rilievi puntualissimi: esegeticamente spesso inattaccabili: talvolta frutto d’un impetuoso bisogno di riportare sotto schemi scientifici precisi una prassi non sempre univoca.
Guardavamo con occhi diversi ai medesimi problemi: e si dava che alla mia inveterata tendenza all’astrattezza si contrapponesse l’aderenza compiuta del mio Amico alla concretezza delle fattispecie in discussione: sicché accadeva – in qualche misura per lo meno – che i nostri discorsi venissero come a completarsi. Naturale perciò che fra di noi si stabilisse – per lunghi e lunghi anni – una particolare “vicinanza umana”: sì certo contrassegnata da differenze di fondo ben sensibili, ma resa profondamente amicale per il reciproco rispetto intellettuale che l’uno dell’altro abbiamo sempre avuto. Direi – di più – d’aver sperimentato, in un tanto frequente raffrontarmi con le intelligenti posizioni del caro Sebastiano, quanto in effetti sia giovevole alla comprensione critica delle proprie stesse idee (delle stesse proprie tavole assiologiche) il confrontarle dialetticamente con le idee degli altri e con i codici assiologici degli altri: sempre che i rispettivi convincimenti (quanto si voglia radicati alla coscienza) vengano proposti – non in rigidi termini assiomatici – sì invece con vicendevole duttilità di comprensione. Si può sì ambire che a ciascun essere umano sia riconosciuto di poter realizzare la propria personalità individua al metro delle tavole assiologiche che più gli si rivelino appaganti. Vale però ben anche che a ciascuno venga al contempo offerto di poter giovarsi d’un consapevole confronto con esperienze umane d’altra ispirazione: vissute con altrettanta schiettezza etica, con altrettanta determinazione volitiva. Ed è la vita ad insegnarci quante volte accada che proprio la diversità delle posizioni soggettive (quali vengono a confronto in termini dialogico-dialettici) approdino a conclusioni ben più valide – in chiave di contemperamento ponderato delle rispettive istanze sostanziali – delle conclusioni cui invece si pervenga come per necessitato svolgimento di presupposti dati per totalmente indisponibili. Tutti (nel seno d’una società come l’attuale: in cui massimamente differenziati si presentano i convincimenti etici degli uomini) tutti – in una società di questo genere – abbiamo necessità l’uno dell’altro. E tanto più [direi] si raccomanda una simile istanza di mutuo accrescimento (fatto di apporti umani vicendevoli) quanto maggiormente si allontanino – nei rispettivi princìpi ispiratori – i codici ideali da cui si sentono guidati i diversi attori della competizione comunitaria. Nel che si manifesta – a mio parere – il valore più alto del vivere civile: quello di consentire all’altro di “esserci altro”.
E in ciò sempre ho ammirato – debbo dirlo – il generoso prodigarsi del caro Sebastiano nel sostenere (al di là di qual si voglia atteggiamento di chiusura) i suoi convincimenti: e nel darne – con pienezza d’animo – testimonianza culturale e soprattutto umana. Ecco perché adesso mi sento non solo onorato, ma gratificato, nel rivolgere un affettuoso ricordo alla memoria di questo Amico onesto e intelligente e comprensivo: cui deve molto la scienza canonistica, e a cui personalmente molto debbo per l’affetto sereno che mi ha sempre dimostrato.
Piero Bellini